Una storia personale traumatica di abuso, specie durante l’infanzia, sembra rappresentare uno dei maggiori fattori che predispongono una persona a diventare un paziente psichiatrico. Solo una parte delle persone esposte allo sviluppo traumatico presenterà disturbi mentali da adulta ma, un’ampia porzione e forse la maggior parte di coloro che sviluppano un qualsiasi disturbo psichiatrico proviene da storie traumatiche. La stima varia dal 40 al 70% dei casi. (Herman, 1992)1.
Ogni anno molti bambini e bambine subiscono varie forme di violenza e maltrattamenti che possono essere fisici, sessuali, emotivi, di trascuratezza, che nella maggior parte dei casi si consumano all’interno del nucleo familiare. Lo studio sulle ACE (Adverse Chilhood Experience), esperienze sfavorevoli infantili, descrive le conseguenze a lungo termine di traumi infantili dell’attaccamento.
Questi traumi sono legati ad alcune delle fonti di stress più intense e frequenti che i bambini possono vivere, quali: trascuratezza, violenze nei loro confronti, violenza tra genitori o tutori, altri tipi di gravi disfunzioni domestiche come alcol e abuso di sostanze, violenza tra pari, comunitaria e collettiva. Sono incidenti di percorso negativi, solitamente cronici, che compromettono i processi di attaccamento e lo sviluppo psicobiologico. Le esperienze sfavorevoli non sono mai isolate, ma tendono a essere più di una2. In aggiunta all’essere vittime dirette di abusi, spesso questi bambini crescono in contesti altamente disfunzionali. La presenza di esperienze multiple può interferire e modificare il normale sviluppo del bambino3. Possono essere catalogate in esperienze sfavorevoli dirette e indirette. Le dirette si riferiscono ai seguenti comportamenti: abuso sessuale, maltrattamento fisico e/o psicologico ricorrente, trascuratezza fisica e/o emotiva. Le indirette riguardano fattori traumatogeni presenti nell’ambiente del bambino, quali: violenza, alcolismo e tossicodipendenza; un membro della famiglia gravemente depresso, con disturbi mentali conclamati, in strutture di recupero o suicidario; genitore unico o assenza di genitori; un familiare incriminato per reati; perdite (morte o abbandoni); svantaggi economici e instabilità lavorativa; un genitore che è stato vittima di abusi. Queste ultime sono esperienze di dinamiche disfunzionali con gli adulti e fra gli adulti di riferimento, all’interno delle quali ai bambini vengono negati alcuni bisogni essenziali allo sviluppo, come, ad esempio, la sintonizzazione emotiva, la sicurezza, la prevedibilità4. Rispetto a persone con un punteggio ACE di 0, gli individui con un punteggio di 4 o più sembrano avere il doppio delle probabilità di essere fumatori, 12 volte più probabilità di tentare il suicidio, 7 volte più probabilità di essere alcolizzati e 10 volte più probabilità di essere utilizzatori di droghe da strada. È possibile che i suddetti comportamenti siano messi in atto come un tentativo di alleviare il disagio emotivo o sociale conseguente alle ACE, anche se implicano conseguenze dannose a lungo termine5.
Oggi, grazie allo sviluppo degli studi e delle ricerche nel campo delle neuroscienze, della psicopatologia dello sviluppo e della neurobiologia interpersonale, possiamo affermare che essere esposti a eventi che suscitano sentimenti di terrore, impotenza e una disregolazione cronica sul piano emozionale può produrre effetti trasformativi sul piano cognitivo, affettivo, comportamentale e fisiologico, causando un danno biologico nei soggetti in età evolutiva. Numerosi dati di ricerca hanno confermato che traumi relazionali precoci possono determinare alterazioni anatomiche e funzionali a carico di quelle aree dell’emisfero destro responsabili della regolazione della vita emozionale, di varie parti del sistema limbico, delle aree prefrontali e dell’asse ipotalamo-ipofisi-adrenocorticale, cioè dell’asse della regolazione ormonale dello stress. Dal punto di vista clinico e psicopatologico, una marcata disregolazione dell’arousal (livello di attivazione psicofisiologica dell’organismo) è considerata uno degli esiti più frequenti ed evidenti di una pregressa traumatizzazione.
Da questa prospettiva risulta essere traumatizzante ciò che è in grado di causare una disregolazione cronica, più o meno intensa, dell’arousal fisiologico, emotivo e comportamentale6. Liotti definisce come sviluppi traumatici, quelli avvenuti in condizioni stabili di minaccia soverchiante cui è impossibile sottrarsi. Shore definisce come trauma relazionale precoce, anche l’effetto sul bambino delle interazioni con un caregiver che esprime inconsapevolmente uno stato di paura continuo.
Possiamo dunque ipotizzare che la gran parte delle esperienze sfavorevoli infantili costituiscano esperienze traumatiche o perché vere e proprie minacce all’integrità del soggetto o di persone a lui care o perché gravi e perduranti mancanze di sintonizzazione in grado di produrre un allarme cronico nel bambino. È stato dimostrato che lo stress prolungato durante l’infanzia ha conseguenze per tutta la vita sulla salute e il benessere; può interrompere lo sviluppo precoce del cervello e compromettere il funzionamento del sistema nervoso e di quello immunitario. L’Organizzazione Mondiale della Sanità incoraggia l’utilizzo dell’indagine ACE, attraverso l’ACE International Questionnaire (ACE-IQ), con soggetti fino a diciotto anni di età, in quanto i risultati delle indagini ACE-IQ possono essere di grande valore nel sostenere un aumento degli investimenti per ridurre le avversità infantili e contribuire alla progettazione di programmi di prevenzione7.
Negli ultimi 20 anni, studi e ricerche nel campo della neurobiologia, hanno indagato l’impatto sul cervello infantile di tali esperienze, trovando modificazioni significative post traumatiche. Il maltrattamento nell’infanzia, anche a livelli modesti, altera la capacità del cervello di regolare il circuito della reazione alla minaccia, il più importante regolatore del nostro stato di benessere. Le modificazioni post traumatiche nel cervello strutturali e funzionali, sono riconoscibili in strutture chiave come: l’Amigdala (percezione e reazione alla minaccia, memoria emotiva), l’Ippocampo (processi di memoria episodica e di attaccamento), la Corteccia cingolata anteriore (circuito della motivazione altamente connessa con il ‘sistema centrale della paura’), la Corteccia prefrontale mediana (aspetti cognitivi-emotivi), l’Insula (altamente connessa con le regioni corticali e limbiche per gli aspetti di elaborazione emotiva e sensoriale), il Cervelletto (area associativa cognitiva ed emotiva, attenzione), la Densità della sostanza bianca (trasmissione delle informazioni).
Le esperienze traumatiche precoci condizionano dunque negativamente a livello neuronale le abilità introspettive e le capacità relazionali del soggetto. Queste esperienze nell’ambito della relazione di attaccamento incidono in modo diretto sulla formazione dei neuroni specchio in quanto l’attaccamento compromesso da un trauma rappresenta un ostacolo all’integrazione interpersonale. Una delle conseguenze è che l’interazione sociale non è più fonte di sicurezza e ciò pone le premesse per un comportamento difensivo-conservativo, che porta ad interpretare anche situazioni neutre come situazioni potenzialmente pericolose da cui bisogna difendersi. L’iperattivazione cronica del sistema di difesa che si verifica fa sì che esso domini sugli altri sistemi d’azione (come la socialità, l’esplorazione, il gioco), innescando tendenze automatiche all’azione che perdurano per tutta la vita e che possono risultare disfunzionali in situazioni diverse da quelle (minacciose) che le hanno inizialmente provocate.
Liotti prende in considerazione I Modelli Operativi Interni che risultano dall’esperienza di crescita in un contesto che non riconosce i bisogni e la specificità del bambino/a. MOI spesso dissociati in rappresentazioni contradditorie. La figura da cui il piccolo cerca amore e protezione dal dolore e dalla paura è la stessa che lo spaventa e gli/ le provoca dolore o è essa stessa spaventata, così il bambino costruirà, sulla base di queste esperienze d’interazione con i caregiver, tre significati/ruoli di base inconciliabili tra loro che costituiscono le rappresentazioni mentali di sé e dell’altro. Rappresentazioni mentali sulle quali costruirà la propria identità inevitabilmente non integrata e le sue future relazioni. Liotti chiama Triangolo Drammatico, il modello operativo, persecutore- vittima- salvatore, che si può costruire nelle interazioni traumatizzanti con i caregiver. I tre ruoli si alternano nelle interazioni e costruiscono le rappresentazioni che il bambino ha di sé e dei genitori. Il bambino può sentirsi il persecutore quando ha la sensazione di essere lui stesso la causa dell’aggressività o delle sofferenze del genitore. In questo caso, il genitore compare agli occhi del bambino come vittima. Può sentirsi vittima quando è terrorizzato dal genitore. Si sente il salvatore quando è di conforto per il genitore e se ne prende cura. Allo stesso modo catalogherà i genitori, secondo le situazioni, come aggressori, vittime o salvatori.
L’impossibilità di integrare queste rappresentazioni delle interazioni con l’altro, costituisce un ostacolo per la costruzione di un senso di sé unitario e quindi un importante fattore di rischio per la strutturazione di reazioni o disturbi dissociativi, caratterizzati proprio da una discontinuità del sé e da un’auto attribuzione altalenante di valore e disvalore. Più grave e ripetuto è il trauma, più saranno le parti dissociate/frammentate del sé (Van der Hart, 2011)8.
Nei bambini ripetutamente esposti a questo tipo di esperienze viene dunque influenzato in maniera stabile lo sviluppo mentale, causando vulnerabilità a un’ampia varietà di disturbi psichici non solo durante l’infanzia, ma anche in età adulta. Tale vulnerabilità si riflette in una sindrome specifica, riconducibile alla dimensione di attività mentali che riguardano soprattutto le funzioni integratrici di memoria e coscienza. Questa sindrome potrebbe essere diagnosticata attraverso una serie di precisi criteri diagnostici non riconducibili alla categoria del PTSD in quanto non in grado di descrivere la molteplicità e la complessità degli effetti del trauma durante la fase di sviluppo e gli esiti di esperienze traumatiche in periodi lontani nel tempo dal momento dell’osservazione, quali quelli che si verificano in casi di abuso e trascuratezza nell’infanzia e che configurano lo sviluppo traumatico.
Negli ultimi quarant’anni sono state proposte alcune categorie diagnostiche per definire e rappresentare la complessità di questi adattamenti post traumatici legati alla disorganizzazione e disregolazione delle funzioni cerebrali integratrici. Herman (1992) ha proposto la categoria di Disturbo Post-traumatico da Stress complesso, per indicare eventi traumatici multipli in intervalli di tempo prolungati, che sono di tipo interpersonale, come gli abusi e i maltrattamenti all’interno di relazioni alle quali la vittima non può sottrarsi, come quelle tra bambino e genitore maltrattante. Van der Kolk e collaboratori (2005) (9) hanno introdotto un quadro analogo, il Disturbo da Stress Estremo Non Altrimenti Specificato, per indicare la complessa sintomatologia legata a traumi prolungati di tipo interpersonale e caratterizzata dalla triade di sintomi dissociativi, della coscienza, somatizzazioni e alterazioni della regolazione emotiva10. Con la pubblicazione dell’undicesima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD-11), l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente riconosciuto la diagnosi di Disturbo da stress post-traumatico complesso (C-PTSD).
Caratteristica di questa diagnosi è l’inclusione nel concetto di PTSD di caratteristiche tradizionalmente associate alla personalità. Ai sintomi classici del PTSD si aggiungono profonde alterazioni nel modo in cui gli individui traumatizzati vedono se stessi e il mondo e nel modo con il quale funzionano e interagiscono con gli altri: un tipico esempio è rappresentato dall’abuso infantile. Sintomi del C-PTSD sono, oltre a quelli del PTSD, le alterazioni nella regolazione emozionale (tristezza pervasiva e persistente, pensieri suicidari, collera esplosiva); le alterazioni nel funzionamento della coscienza (per esempio episodi in cui il la persona si sente distaccata dai propri processi mentali o dal proprio corpo); le alterazioni nella percezione di sé (impotenza, vergogna, colpa, senso di estraneità); alterazioni nei rapporti con gli altri (isolamento e sfiducia); ridotta capacità di regolazione degli affetti (instabilità affettiva, variazioni di umore, improvvisa inondazione affettiva); comportamenti per ridurre la tensione (automutilazione); disturbi sessuali, disturbi alimentari, comportamenti impulsivi, abuso di sostanze. Si associano al quadro disturbi nel senso di identità come una ridotta autoconsapevolezza, stati dell’Io contraddittori/poco integrati, diffusione del sé in presenza di forti emozioni.
I membri della Developmental Trauma Disorders Taskforce, istituita all’interno del NCTSN – National Child Traumatic Stress Network e guidata dallo psichiatra Bessel Van der Kolk, hanno identificato una configurazione post-traumatica riscontrabile in bambini e adolescenti con storie di traumatizzazioni complesse, cioè specifica per l’età evolutiva, il Disturbo traumatico dello sviluppo (Development Trauma Disorder, DTD). Il DTD può essere considerato un disturbo ponte tra i primi sintomi post-traumatici e/o dell’adattamento nell’infanzia e in adolescenza, e lo sviluppo di forme di patologia franca in età adulta, in particolar modo il Disturbo post-traumatico complesso. Sebbene il DTD non sia ufficialmente riconosciuto come disturbo a sé stante dai due principali manuali diagnostici (il DSM-5 e l’ICD-11), Van der Kolk e colleghi (Spinazzola, Van der Kolk & Ford, 2018) hanno osservato in più di una ricerca che i bambini e gli adolescenti traumatizzati spesso presentano:
• Disregolazione delle emozioni, cioè incapacità di modulare, tollerare e superare emozioni negative come paura, rabbia, vergogna;
• Problemi nella regolazione delle funzioni corporee, come disturbi del sonno, dell’alimentazione e dell’evacuazione (enuresi e encopresi);
• Iper-reattività o bassa reattività agli stimoli circostanti (ad esempio, contatto, suoni, ecc.) e difficoltà di adattamento ai cambiamenti;
• Sintomi dissociativi e bassa consapevolezza del proprio corpo;
• Problemi somatici, come mal di testa, disturbi gastrointestinali, dolore cronico, ecc.;
• Difficoltà nel riconoscere e descrivere le emozioni, o alessitimia, evidente soprattutto in adolescenza;
• Ridotto controllo degli impulsi, mancanza di attenzione e condotte aggressive, che generano problemi soprattutto in ambiente scolastico;
• Costante stato di allerta, ma ridotta capacità di identificare correttamente ed evitare il pericolo;
• Comportamenti di autoconsolazione (dondolio, stereotipie motorie, masturbazione compulsiva) o autolesionismo;
• Disturbi nella percezione di Sé e nelle relazioni, ad esempio cronici sentimenti di vergogna, incapacità, odio verso se stessi, sfiducia, diffidenza e timore verso gli altri e tendenza all’isolamento sociale.
È facile incorrere nell’errore di vedere questi gruppi di sintomi come isolati e di etichettare il bambino o l’adolescente come “difficile” o “cattivo” o inserendolo in varie categorie diagnostiche. Ad esempio, a scuola i sintomi di disattenzione possono essere interpretati come svogliatezza, oppure, se accompagnati ad aumentata reattività e iperattività, come attribuibili a un Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività (ADHD). Alcuni di questi bambini sono portati a reagire velocemente in maniera diretta e aggressiva agli stimoli che suscitano emozioni intense, reazioni queste che possono sfociare in comportamenti violenti nei confronti dei pari e degli adulti e che, se estrapolate dal contesto, potrebbero portare a diagnosi come quella di Disturbo Oppositivo Provocatorio. Altri bambini, invece, assumono un comportamento ritirato e passivo, che li rende vittime preferenziali di bullismo da parte dei pari e, dunque, li espone a ulteriori violenze interpersonali. Se la relazione con le figure di accudimento è stata caratterizzata da trascuratezza e/o abuso, il bambino non avrà appreso strategie adattive per regolare le proprie emozioni negative, e ricorrerà perciò a comportamenti di coping disfunzionali. Gli altri, in particolare gli adulti, sono visti come poco affidabili e dal comportamento imprevedibile, quindi i bambini e gli adolescenti svilupperanno sentimenti di sfiducia, sospettosità, problemi nell’intimità, isolamento sociale e convinzioni che dovranno proteggersi da soli, perché nessun altro lo farà. Infine, un indicatore di traumatizzazione infantile è la regressione a periodi precedenti dello sviluppo, cioè la perdita di capacità e competenze precedentemente acquisite (ad esempio, linguaggio, controllo sfinterico, maggiore indipendenza dalle figure genitoriali, ecc.).
Uno studio longitudinale condotto su 4.000 bambini ha mostrato che questo complesso quadro sintomatologico sembrerebbe corrispondere alle difficoltà presentate da coloro che avevano subìto dei traumi interpersonali in giovane età (De Angelis, 2007)11. Gli effetti negativi e pervasivi della traumatizzazione precoce e ripetuta sono dovuti al fatto che queste esperienze interferiscono con lo sviluppo del cervello e del Sistema Nervoso in generale, e dunque con la capacità di integrare le informazioni sensoriali, emotive e cognitive in un’esperienza unica e coesa. Diversi studi, ad esempio, Dunn et al., 201812, hanno, infatti mostrato che traumi avvenuti in periodi sensibili nello sviluppo neurobiologico, tendono ad avere conseguenze a lungo termine e aumentano significativamente il rischio di gravi disturbi fisici e psichici nel breve e lungo periodo. Colmare la lacuna di un quadro diagnostico dell’età evolutiva espressamente legato allo sviluppo traumatico è indispensabile al fine di poter prevenire la stabilizzazione della sintomatologia (Liotti, Farina, 2011).
Recentemente, è stata messa a punto la Developmental Trauma Disorder Semi-Structured Interview (Ford et al., 201813), uno strumento che può supportare i professionisti nel formulare la diagnosi. Di seguito i criteri diagnostici per il disturbo traumatico dello sviluppo (Van der Kolk, 2005):
Cluster A: Esposizione a violenza interpersonale e grave trascuratezza nell’accudimento.
Cluster B: Disregolazione emotiva e nelle funzioni fisiologiche; Inabilità a modulare e tollerare stati emotivi negativi. Disturbi nella regolazione delle funzioni corporee di base: sonno-alimentazione-iperreattività agli stimoli sensoriali. Stati dissociativi, dissociazioni somatoformi. Marcata alessitimia: difficoltà nel riconoscere, descrivere e comunicare sensazioni corporee, stati emotivi, desideri e bisogni.
Cluster C: Disturbi comportamentali e cognitivi. Incapacità nel percepire ed evitare o difendersi dalle minacce o allarme eccessivo per stimoli minacciosi, sia ambientali sia relazionali. Alterazioni nella capacità di proteggersi ed esposizione a situazioni rischiose. Disturbi comportamentali derivanti da manovre di auto conforto (masturbazione cronica, stereotipie motorie, automutilazioni, abuso di sostanze). Comportamenti automutilanti reattivi o abituali. Difficoltà a pianificare, iniziare o completare un compito, concentrarsi su un compito, organizzarsi per ottenere benefici.
Cluster D: Disturbi nella percezione di sé e delle relazioni interpersonali. Disturbi nelle relazioni di attaccamento, difficoltà di separazione, timore nel ricongiungimento. Sentimenti di avversione per se stessi, senso di inaiutabilità, convinzioni di mancanza di valore, incapacità, essere sbagliati o difettosi. Senso di sfiducia nei propri confronti e verso gli altri con atteggiamenti ipercritici o di rifiuto verso le persone più vicine o i caregiver. Comportamenti aggressivi anche verso i caregiver. Comportamenti inappropriati di vicinanza e fiducia verso estranei anche con comportamenti sessualizzati. Difficoltà o incapacità a regolare il contatto empatico (eccessivo coinvolgimento o distacco nelle situazioni sociali).
Cluster E: Sintomatologia del PTSD.
Cluster F: Difficoltà nel funzionamento globale: familiare, sociale, scolastico, comportamentale.
Conclusioni
Rispetto a quanto detto sugli effetti della traumatizzazione cronica in età evolutiva, il processo di riparazione del danno deve fare riferimento ad alcuni aspetti fondamentali quali:
• La sicurezza del soggetto, in quanto non esposizione al ripetersi delle dinamiche traumatizzanti da parte dei familiari o di altri adulti o dei pari. Risulta a questo proposito fondamentale la conoscenza del tipo di esperienze relazionali nell’ambiente di riferimento e la storia familiare del soggetto.
• La comprensione e significazione dei comportamenti legati alla disregolazione e dissociazione attraverso la creazione nella comunità di un ambiente relazionale coerente e prevedibile. Ciò è reso possibile dall’identificazione dei trigger interni ed esterni, (emotivo-sensoriali o situazionali) che attivano reazioni aggressivo difensive, di autoconsolazione o di riduzione disfunzionale dell’arousal.
• La stabilizzazione attraverso il costruire e sostenere capacità di regolazione che favoriscano il processo di mentalizzazione.
• Il recupero dell’integrazione, promuovendo:
- la capacità di percepire e definire le proprie sensazioni ed emozioni
- la capacità di percepire i propri processi mentali e di monitorare le relazioni nel presente.
Indice
1 – Herman J.L., Trauma and Recovery, 1992. Trad. Italiana, Guarire dal Trauma, Ed. Magi, 2005.
2 – World Health Organization, Adverse Childhood Experiences International Questionnaire (ACE-IQ), Geneva, 2018 (http://www.who.int/violence_injury_prevention/violence/activities/adverse_childhood_experiences /questionnaire.pdf).
3 – Felitti V.J., Anda R.F., Il rapporto tra esperienze sfavorevoli infantili e malattie somatiche, disturbi psichiatrici e comportamento sessuale nell’adulto: implicazioni per la politica sanitaria, in Lanius R., Vermetten E., Pain C. (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta. Roma, Fioriti, 2012.
4 – Bruno S.T., Bambini nella tempesta. Ed Paoline, 2022.
5 – Felitti V.J. et al., 1998, Relationship of Childhood Abuse and Household Dysfunction to Many of the Leading Causes of Death in Adults: The Adverse Childhood Experiences (ACE) Study, in American Journal of Preventive Medicine 14/4, 55: 245-258.
6 – Lanius R., Vermetten E., Pain C. (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta. Roma, Fioriti, 2012.
7 – Bruno S.T, Bambini nella tempesta. Ed Paoline, 2022
8 – Van der Hart O., Nijenhuis E.R.S. & Steele K., Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano, Raffaello Cortina, 2011.
9 – Van der Kolk B.A., 2005, Developmental Trauma Disorder; Towards a rational diagnosis for children with complex trauma histories, in Psychiatric Annals, 5: 401-408.
10 – Spinazzola J., Van der Kolk B. & Ford J.D., 2018, When nowhere is safe: interpersonal trauma and attachment adversity as antecedents of posttraumatic stress disorder and developmental trauma disorder, in Journal of traumatic stress, 31(5): 631-642.
11 – De Angelis T., 2007, A new diagnosis for childhood trauma? Some push for a new DSM category for children who undergo multiple, complex traumas, in Monitor on Psychology, 38(3): 32.
12 – Dunn E.C., Nishimi K., Gomez S.H., Powers A. & Bradley B., 2018, Developmental timing of trauma exposure and emotion dysregulation in adulthood: Are there sensitive periods when trauma is most harmful?, in Journal of affective disorders, 227: 869-877.
13 – Ford J.D., Spinazzola J., & Grasso D.J., 2018, Toward an Empirically Based Developmental Trauma Disorder Diagnosis for Children: Factor Structure, Item Characteristics, Reliability, and Validity of the Developmental Trauma Disorder Semi-Structured Interview, in The Journal of clinical Psychiatry, 79 (5).